DI Gianni Svaldi
Studenti agitati, cori “Notte prima degli esami”, genitori in ansia, commissari affilano le matite blu. La Maturità è un rito come il Natale e il Capodanno. Ma al di là della retorica se si legge con attenzione l’ultima indagine PIAAC dell’OCSE sulle competenze degli adulti, salta fuori un dato che merita attenzione.
Lo dico senza giri di parole: molti degli insegnanti che domani siederanno in commissione d’esame potrebbero avere competenze inferiori a quelle dei maturandi che sono chiamati a giudicare.
Aspettate a scandalizzarvi. Non è un insulto, è una constatazione. Anzi: è un dato. Letterale.
Il rapporto PIAAC-OCSE, pubblicato a dicembre 2024 su dati raccolti l’anno precedente, misura le competenze (e non l’erudizione) degli adulti tra i 16 e i 65 anni in tre aree fondamentali: literacy (comprensione e uso dei testi scritti), numeracy (abilità matematiche di base) e problem solving adattivo (quella voce nei CV che recita “capacità di affrontare situazioni complesse”, e che in sostanza significa: sapersela cavare, alla MacGyver).
I punteggi vanno da 0 a 500. In questo studio gli adulti italiani si fermano, in media, a 245 punti in literacy, contro una media OCSE di oltre 272. In numeracy scendiamo a 244, rispetto a una media di 269. E nel problem solving ci fermiamo a 231, tra i punteggi più bassi in assoluto.
Chi ci resta dietro? Solo Lituania, Polonia e Cile. Tanto per chiarire: siamo fra le peggiori performance del mondo industrializzato.
Il quadro peggiora se si guarda alla geografia interna. Solo il Nord regge il confronto con la media OCSE. Il Mezzogiorno, invece, trascina giù l’intero Paese. Dove ci sono meno opportunità economiche, ci sono anche meno competenze cognitive. E viceversa. Le regioni del Nord o l’estero, con stipendi più alti e migliore qualità della vita, attraggono la maggior parte dei ragazzi più capaci e più intraprendenti del Mezzogiorno.
Per chi non ha già cominciato a gridare al complotto, ai “poteri forti” che manovrano l’OCSE o a “Soros” arriva ora la parte interessante. O meglio: quella che dà il senso di questo editoriale.
I giovani italiani tra i 16 e i 24 anni ottengono punteggi più alti rispetto al resto della popolazione adulta in tutti i campi. In numeracy superano perfino i 25-34enni. Hanno competenze più solide, più fresche, più pronte.
E questo, sia chiaro, in un Paese che non è certo noto per investire in formazione continua o per offrire grandi occasioni ai giovani.
Ergo: sui banchi degli esaminati potrebbero sedersi persone con competenze superiori a quelle che stanno dietro la cattedra a giudicarle.
Fa ridere? Fa paura? Fa indignare? Soprattutto fa pensare.
Perché la verità, nuda e cruda, è che l’Italia non sa valorizzare ciò che costruisce.
Abbiamo studenti che escono dalle superiori o dalle università con competenze decenti, perfino buone. Ragazzi capaci di moltiplicare per 10 ciò che hanno imparato.
Ma poi? Poi quel patrimonio si disperde. Perché manca la formazione continua. Manca l’aggiornamento professionale. Manca la meritocrazia: se un giovane lavoratore brillante guadagna quanto uno scansafatiche raccomandato alla fine si arrenderà. E questo accade soprattutto nel settore pubblico.
Non esiste un sistema che mantenga vivo il sapere. Il lavoro – specie quello routinario – è spesso povero di stimoli cognitivi. Le occasioni per crescere sono rare. Così, nel giro di dieci o vent’anni, le competenze si spengono. Si atrofizzano.
E non vale solo per chi ha smesso di studiare a diciott’anni. Anche chi ha una laurea, un titolo terziario, una qualifica specialistica, si ritrova spesso in discesa libera dopo i trent’anni. Perché da noi l’istruzione è vista come una fase. Studi per laurearti, studi per un concorso e poi – finita lì – addio libri, addio aggiornamento personale.
Non è considerata un investimento da far fruttare lungo tutta la vita.
E allora, se vogliamo davvero parlare di merito, di crescita, di futuro, cominciamo a chiederci perché in Italia le competenze invecchiano male, peggio di certi vini cattivi.
E riconosciamo – senza paternalismi – che forse, domani, alcuni studenti porteranno alla maturità non solo l’ansia e i temi da scrivere, ma anche un livello di competenze superiore a quello di chi li valuta.
Fa male, sì. Anche a chi scrive.
Ma non è inciso da nessuna parte che la verità deve essere miele. Spesso sa di fiele. E fa bene solo a chi riesce a mandarla giù.