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La flat tax spiegata bene e senza fare propaganda (2ª parte)

30 Lug 2019 - Inchieste e Reportage

La flat tax spiegata bene e senza fare propaganda (2ª parte)

Prima parte
Da tempo, infatti, gli economisti esaltano la tassa piatta come la soluzione per uscire dalla stagnazione dell’economia, ed è in tale ottica che deve essere interpretata la sua introduzione nel nostro ordinamento. Fin dal 1956, durante una conferenza tenuta presso il Claremont Collage in California, il Nobel per l’economia Milton Friedman propose la flat tax negli Stati Uniti; nel suo libro “Capitalismo e Libertà” criticò i principali metodi usati dai governi per modificare la distribuzione del reddito; in particolare contestò le imposte progressive sul reddito, negandone l’efficacia, in quanto con il vigente sistema, prevedendo un notevole numero di deduzioni e detrazioni per le classi di reddito più alto, in definitiva portava benefici solamente quest’ultime. Propose, così, un’imposta ad aliquota unica, con la possibile deduzione solamente per le spese che hanno concorso a formare tale reddito. All’inizio degli anni Ottanta, la tesi di Friedman è stata ripresa da due economisti statunitensi, Robert E. Hall e Alvin Rabushka: il loro contributo è stato riassunto nel libro “Flat tax”, dove proposero una tassa piatta del 19%, con l’eliminazione di tutti i tipi di detrazione e deduzione, fatta eccezione per la deduzione relativa al nucleo familiare, sostenendo che “la Flat tax con un’aliquota bassa ed unica del 19% potenzierebbe l’efficienza dell’economia americana”. Questi studiosi, dunque, hanno sostenuto che da questo tipo di riforma fiscale sarebbero potuti provenire potenziali stimoli a livello lavorativo per tutte le categorie di lavoratori, ma soprattutto per l’imprenditoria, settore caposaldo dell’economia; occorre precisare che in quegli anni vigeva negli Stati Uniti un sistema che provocava diverse distorsioni strutturali, tra cui la doppia imposizione sugli utili societari poi distribuiti agli azionisti. Il loro ragionamento si basava sul fatto che, con un’aliquota marginale elevata, molti cittadini ad alto reddito cercherebbero diversi modi per ridurre la propria base imponibile anziché dedicarsi alla produttività: un’aliquota unica incrementerebbe, invece, l’offerta di lavoro, nel senso della disponibilità delle persone a lavorare, in quanto con tasse elevate molte persone decidono di non lavorare; inoltre l’aliquota unica avrebbe un effetto positivo sulle scelte di investimento, in quanto non verrebbe né penalizzato e né avvantaggiato nessun tipo di investimento dal lato fiscale. Secondo altri economisti, infine, le aliquote fiscali elevate disincentivano il lavoro, il risparmio e l’investimento, in quanto ciascun individuo si troverebbe in difficoltà a conservare una quantità appropriata di quel che guadagna. Inoltre, ogni qualvolta i contribuenti vedono assoggettati i propri tipi di reddito diversi con imposte differenti tra loro, hanno la tendenza a gonfiare gli importi delle voci deducibili o detraibili e di rimpicciolire il più possibile la propria base imponibile per farla rientrare nello scaglione più basso possibile. Rabushka e Hall hanno sostenuto, allora, che tramite un’aliquota bassa che tassa tutti i vari tipi di reddito, questi fenomeni non avrebbero ragione d’essere. Alvin Rabushka si colloca all’interno di quella scuola di pensiero economica che ha elaborato le teorie sulla “supply-side economics”, che sta per “economia dell’offerta”; una teoria macroeconomica nata in USA nei primi anni ’70 e che vide tra i principali sostenitori R.A. Mundell e A. Laffer, entrambi economisti statunitensi. Si tratta di un approccio alla crescita che ritiene l’intervento del governo necessario per il lato dell’offerta, meno che per il lato della domanda. Secondo tali studiosi, infatti, per promuovere lo sviluppo, il Governo dovrebbe ridurre la pressione fiscale e cercare di contenere i prezzi di offerta dei prodotti. Ritengono che un livello di tassazione troppo elevato condizionerebbe negativamente le scelte economiche degli individui, mentre un carico fiscale più leggero aiuterebbe a far aumentare l’offerta di lavoro e il livello degli investimenti privati, con la conseguente crescita delle entrate fiscali nonostante la diminuzione delle aliquote: in tal modo le imprese sarebbero più incentivate ad assumere nuovi lavoratori, facendo crescere così l’occupazione, e avrebbero maggiori disponibilità a fare nuovi investimenti per produrre beni e servizi; a loro volta, i lavoratori sarebbero portati a favorire il lavoro piuttosto che la disoccupazione, andando così a stimolare il lato dell’offerta. La critica di maggior rilievo mossa a questa scuola di pensiero evidenzia come tale modello si fondi su di un aspetto da non sottovalutare, ovvero sull’idea che una minore pressione fiscale faccia aumentare l’offerta di lavoro. Se è vero che si rende più desiderabile il lavoro rispetto al tempo libero (effetto sostituzione), è anche vero che una minore imposizione fiscale fa aumentare il reddito disponibile a parità di lavoro (effetto reddito): quindi, potrebbe far emergere la situazione in cui la quantità di offerta di lavoro diminuisca. Nonostante le numerose critiche, tuttavia, tale teoria fu sostenuta da molti Governanti, tra cui, ricordiamo, il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan che, durante la sua presidenza tra il 1981 e il 1989, convinto in particolar modo da Laffer, adottò un insieme di scelte di politica economica (“Reaganomics”) volte a ridurre il carico fiscale sul lavoro e sui redditi di capitale. Il Presidente Reagan, inoltre, realizzò una politica di deregolamentazione, con lo scopo di favorire i meccanismi liberisti di autoregolazione del mercato, con una diminuzione degli interventi dello Stato all’interno dell’economia, proprio come sostenevano gli esponenti della Supply-side Economic. Durante la Reganomics si ebbe una crescita notevole in termini reali del 4,6%, aumentarono i posti di lavoro con una conseguente riduzione della disoccupazione, fu contrastata l’inflazione e aumentarono le entrate pubbliche. I sostenitori della flat tax, per spiegare i possibili effetti della riduzione della pressione fiscale che si otterrebbe con tale sistema fiscale, ricorrono alla cosiddetta “Curva di Laffer”. Nel 1980, Arthur Laffer, un’economista dell’University of Southern California, per convincere l’allora candidato repubblicano alle elezioni presidenziali, Ronald Reagan, a diminuire le imposte dirette, presentò la curva che da allora prese il suo nome; tale curva viene associata all’aliquota unica in quanto spiegherebbe la riduzione della pressione fiscale adottando, di fatti, un’aliquota piatta. Ma non ci sono prove empiriche che sostengono la curva di Laffer. Numerosi economisti si sono cimentati nella stima degli effetti dell’aliquota unica. Le conclusioni risultano non del tutto in linea con le positive aspettative di Rabushka-Hall. Altri tentativi sono stati effettuati in diversi Paesi del mondo, ma tutte le simulazioni hanno dato pressoché un risultato simile. Infatti, pur stimando nel breve un guadagno di efficienza, rilevano un forte aumento della disuguaglianza fiscale a scapito dei redditi medi: in sintesi, gli effetti della flat tax avvantaggerebbero solo le classi più ricche. Anche recentemente, Vincenzo Visco, nel suo articolo dal titolo “Flat tax, un conto pesante per i ceti medi”, espone tale conseguenza derivante dall’applicazione di una tassa piatta: “Tassare un reddito di 10.000 euro e uno di un milione con la stessa aliquota sarebbe di difficile comprensione per molti […]; il fatto è che lo straordinario dell’operaio e il premio di produzione del manager sarebbero tassati ambedue al 25%. La progressività assicurata dalle deduzioni sarebbe molto moderata, ma soprattutto i più ricchi beneficerebbero di un tetto al prelievo quale che fossero i loro redditi complessivi, che difficilmente potrebbe essere considerato equo dalla maggior parte delle persone sensate”.

Un importante contributo per valutare l’efficacia della riforma in questione può essere offerto dall’esperienza di altri Paesi che in passato hanno introdotto la tassa piatta, e che spesso l’hanno abbandonata. Infatti, a partire dal 1995/96 molti importanti Paesi dell’Europa orientale hanno cominciato ad adottare un’imposta con un’aliquota fissa con lo scopo di dare respiro all’economia e di facilitarne la ripresa e lo sviluppo. È stata introdotta inizialmente dall’Estonia, Lettonia, e Lituania. A seguire, dopo il successo riscontrato in questi paesi, dai primi anni del 2000, molti altri adottarono un’aliquota unica, con differenti aliquote a seconda delle esigenze interne di ognuno, tra cui Russia, Ucraina e Slovacchia. I sostenitori della flat tax ritengono che gli ex Paesi comunisti dell’Europa dell’est hanno tratto benefici dall’adozione della flat tax, spesso accompagnata da un aumento delle deduzioni; in particolare i Paesi Baltici hanno riscontrato una crescita economica notevole negli ultimi anni. Alcune nazioni, come la Slovacchia e la Russia, la flat tax potrebbe non essere la causa diretta di tale crescita:in Russia, in vero, la crescita e l’incremento delle entrate va attribuita al boom del settore energetico piuttosto che agli effetti di una flat tax. Molti altri paesi hanno cercato di raccogliere frutti dall’imposta unica, ma non sempre hanno avuto un esito positivo. Ad esempio, l’Islanda ha previsto, nel 2007, una tassa fissa del 22,75%, ma dopo 3 anni è tornata ad un sistema progressivo variabile, denunciando il fallimento dell’aliquota unica. La flat tax rimane ad oggi solo in Russia e in alcune Repubbliche ex sovietiche, oltre a quasi tutti i paradisi fiscali. L’Estonia è stato il primo paese in Europa, nel 1994, ad aver adottato l’aliquota unica al 26% sul reddito delle persone fisiche e per i redditi delle imprese, seguito, poco dopo, da Lettonia e Lituania. Questi paesi adottarono rapidamente questo schema di tassazione perché volevano portare avanti una politica di rottura con il passato introducendo soluzioni innovative con lo scopo di attrare investimenti esteri per riavviare le loro economie. In particolare, l’Estonia è da tempo ritenuto uno dei paesi con il migliore sistema fiscale, grazie a un processo di determinazione di imposta notevolmente rigoroso, per rendere il regime di tassazione più equo possibile. Ha applicato un’aliquota unica del 26% che si posizionava circa a metà tra l’aliquota più alta e quella più bassa del sistema fiscale precedente la riforma, prevedendo anche una ampia no-tax area.

A seguito del successo riscontrato in Estonia, anche la Lettonia ha seguito le sue orme, adottando inizialmente due aliquote: una del 25% e una del 35% per i redditi più alti. Tale riforma ha indubbiamente risollevato l’intero sistema economico: è aumentato il gettito fiscale, sia per quanto riguarda le imposte sul reddito sia per quanto riguarda quelle sulle società, e si è stimolata la crescita economica. Pero anche la Lettonia oggi ha abbandonato la tassa piatta varando una riforma fiscale che, dall’inizio del 2018, prevede tre diverse aliquote d’imposta. In seguito diversi studi, come quelli effettuati dal Fondo Monetario Internazionale, hanno potuto confermare che la vera causa della ripresa russa, non fu proprio l’introduzione della flat tax, che senza dubbio fu di aiuto, ma è stato lo sfruttamento delle risorse energetiche e del petrolio, nonché altri fattori, come ad esempio i maggiori controlli, che hanno evitato la corruzione e la fuga dei capitali. Infatti, il budget russo dipende notevolmente dal settore petrolchimico; le entrate provenienti dalle imposte indirette sui prodotti petrolchimici ammontano al 4% del PIL, superando di due volte le stesse entrate nei Paesi dell’Europa occidentale, e quindi ne fanno un caso anomalo. Quello che emerge dall’analisi dell’andamento del gettito fiscale e del PIL dei Paesi che hanno deciso di adottare un sistema di imposizione ad aliquota fissa è che, in alcune circostanze, dopo l’introduzione della flat tax si è verificato un incremento delle entrate fiscali, in altre sono addirittura diminuite. È quindi difficile attribuire una relazione di causa-effetto tra l’introduzione della flat tax ed i benefici da essa derivanti e, infatti, non è dimostrabile la circostanza che una riduzione dell’aliquota sull’imposta personale abbia avuto un effetto positivo sui comportamenti adottati dai consumatori e che abbia contribuito a combattere l’evasione e l’elusione. Anzi, i dati economici dimostrano che, in seguito all’introduzione della flat tax, le entrate tributarie sembrano notevolmente diminuire e, dove invece aumentano, le ragioni non sono del tutto uniche. Nella maggior parte dei casi, l’introduzione della tassa piatta è rientrata in una più articolata riforma fiscale, come è successo in Russia: in questo caso, il Governo aveva adottato, oltre che la flat tax, una serie di rilevanti cambiamenti connessi al rilancio dell’economia. Si evidenzia, quindi, che un paragone tra tali esperienze e la situazione italiana appare difficile, in virtù sia degli elementi appena citati, sia di un ulteriore fattore che caratterizza la nosta Nazione: l’incidenza della spesa pubblica rispetto al PIL. Le statistiche fiscali mettono in luce, infatti, che nella maggior parte dei Paesi che hanno introdotto la flat tax il rapporto spesa pubblica e PIL è particolarmente basso (tra il 36% e il 39%), mentre in Italia tale rapporto supera di poco il 50%, rendendo difficile tutti gli interventi per la crescita.

Da quanto sopra esposto emerge che l’introduzione della flat tax nell’ordinamento tributario italiano potrà dare i risultati sperati in termini di ripresa economica solo se accompagnata dall’introduzione di concreti elementi di stimolo agli investimenti strutturali (anche attraverso la leva fiscale) e di incremento della spesa pubblica e dei consumi privati nazionali; in tale quadro assumono rilevanza strategica gli interventi a sostegno della internazionalizzazione delle imprese e dell’innovazione dei prodotti, interventi che richiedono investimenti importanti e non dall’immediato impatto, e che tuttora sembrano non aver attirato pienamente l’attenzione della classe politica: in altri termini, l’esperienza degli altri Paesi induce a ritenere che la flat tax potrà aiutare la ripresa economica ma solo se costituirà un tassello di una più articolata politica economica che allo stato non sembra appena abbozzata: pertanto una valutazione dell’impatto della tassa piatta è al momento prematura e non può essere decontestualizzata dal pacchetto di misure economiche che l’attuale Governo sta ancora approntando.

*Nicola Fortunato è professore associato di Diritto Tributario – Università degli Studi di Bari Aldo Moro


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