La ricchezza della cucina povera di Capitanata
Antonio V. Gelormini | 17 April 2016

C’è un filo, nemmeno troppo sottile, cardato, tessuto, ritorto e intrecciato, che si fa trama di tradizioni, usi e consuetudini tra territori adiacenti e metafora quotidiana del gioco di sponda tra mare ed entroterra. Un canovaccio senza tempo, di antica sapienza contadina, capace di raccontare e rivitalizzare l’impronta identitaria di aree e comunità di quella parte d’Italia che, saldando il Subappennino Dauno al Promontorio del Gargano, è meglio conosciuta come terra di Capitanata

E’ il filo che si dipana lungo il labirinto tracciato dalle migrazioni delle greggi, che dalle altitudini dell’Abruzzo e del Molise scendevano nelle più miti pianure del Tavoliere pugliese, attraverso un fitto intreccio di “vie erbose”: i tratturi. La nervatura di un sistema territoriale a vocazione agricola, che col suo patrimonio di tradizioni, di storia, di prodotti e di relativi sapori, ripropone oggi un’originale offerta turistica a forte contenuto ambientale ed eno-gastronomico, nonché ricca di opportunità didattiche, per appassionati della natura, viaggiatori, camminatori, cicloamatori e soprattutto per famiglie, ragazzi e bambini.

Lungo queste direttrici si sviluppò una vera e propria “civiltà della transumanza”. Una realtà socio-economico-rurale che ha favorito insediamenti umani, ha inciso nell’assetto complessivo del territorio, ha disegnato nuovi modelli del panorama rusticano, avviando relazioni interregionali e contaminazioni culturali fortemente influenzate dai periodici movimenti migratori.

In questo senso il “turismo del sapore”, realtà consolidata a livello nazionale ed europeo, diventa lievito, siero, sale e companatico dei turismi possibili e trova una nuova e, forse, più consona declinazione nelle cosiddette “Terre dei tratturi”.

In questo dedalo di ‘cammini’ le moderne ‘stazioni di posta’ mostrano insegne talvolta poco conosciute, ma il cui richiamo fatto di profumi, di genuinità e qualità del prodotto e del servizio diventa irresistibile appena se ne entra nel raggio d’azione territoriale.

Succede da Michele Sabatino ad Apricena, la città della pietra più dura di Puglia, dove la stagionatura delle prelibatezze ‘podoliche’ segue i ritmi “slow” della natura, per impreziosire e rendere unici i tesori insaccati con la sapienza dei pastori del Gargano, condita dai segreti dei pastori transumanti.

Sorprende come il guizzo di un’anguilla a Lesina, sul lago salato bislungo, in cui si specchiano aurore dorate e tramonti infuocati, dove a “Le antiche sere” dello chef Nazario Biscotti il pesce preferito da Federico II viene marinato in tutte le salse, per esaltare la creatività contadina con affaccio sul mare, tradotta e imbrigliata nei piatti poveri di una cucina innovativa: con i piedi in Adriatico – tra reti e trabucchi – e lo sguardo rivolto alle pagode, alle piroghe e ai riverberi del lontano Oriente.

Incanta come il canto delle sirene e delle diomedee nelle espressioni casearie delicate e ‘montate’ – fino all’impalpabilità al palato – nelle composizioni a tinta unica dell’Azienda Ioanna di Biccari: trait-d’union tra i capi ovini e bovini del Gargano e le erbe spontanee del Subappennino Dauno. Dove caprini, cacio ricotte, pecorini e speziati nobilitano nell’essenzialità del bianco l’arcobaleno nascosto di sapori e di profumi sprigionati dai piatti tipici locali.

Testimonianza riassunta e concentrata in quel ‘trionfo di identità pugliese’ che è rappresentato da “La passionata”, frutto dell’amore creativo di Lucia Casoli e Nicola Mecca all’ombra del ricamo arabesco del Rosone più bello di Puglia. Una sorta di risposta dauna alla più famosa e conosciuta “cassata siciliana”. Uno scrigno di caratteri rurali derivato dall’amalgama di tre tipi di ricotta: pecora, bufala e mucca, su biscuit mediterraneo, con ricopertura di marzapane di mandorle di Toritto, aromatizzato nelle diverse declinazioni di proposta (Nero di Troia, caffè, pistacchio, Strega, arancia e a breve anche al Moscato di Trani).

Conquista, infine, nella sintesi che accoglie e raccoglie tali e tante altre eccellenze, nella Masseria Montaratro – in omonima contrada tra Troia e Lucera – un tempo centro di “tosatura” delle greggi e di trebbiatura del grano ed inevitabile ritrovo per i cosiddetti ‘capocanali’: cene o pranzi comunitari e conviviali di fine impresa o lavori.

Qui lo chef Luigi Nardella e l’accoglienza generazionale della famiglia Romano, nel riprendere la tradizione più classica della cucina popolare, la ripropongono in una lettura contaminata prima dagli influssi di prossimità e poi aprendola versi orizzonti internazionali “sostenibili”, per rilanciarne tutta la carica di sapori autoctoni, esaltati da Oli Extravergine d’Oliva dal pizzico salutare e antiossidante, e dalle asprezze tanniniche del Nero di Troia “in purezza” o addolcite e ammorbidite dal Montepulciano d’Abruzzo nella versione più conosciuta del Cacc’ e mitt’ di Lucera.

“È tempo di migrare”, ricordava D’Annunzio. E i pastori radunavano le greggi e si mettevano in cammino per sfuggire all’inverno e alla neve. Un viaggio che oggi reinterpretiamo per andare alle radici del camminare, quando con la transumanza milioni di pecore, accompagnate da pastori e cani, partivano due volte l’anno, dalla montagna alla pianura (prima dell’inverno) e dalla pianura alla montagna (prima dell’estate).

Un ciclo di movimenti non occasionali, ma ripetuti e costanti, con un ritmo senza tempo, lungo “itinerari perenni” che la millenaria attività pastorizia ha arricchito di produzioni casearie d’ogni tipo e di ricette legate ai prodotti selvatici più indigeni. Un pellegrinaggio laico attraverso ricotte, formaggi freschi e stagionati. Caciotte, burrate, mozzarelle e caciocavalli. Agnello alla brace, involtini d’interiora e capretto al forno. Pomodorini selvatici, cicorie, cicorielle, cardi, asparagi, funghi e carciofi. Solo alcuni degli acuti di una sinfonia di sapori, la cui intensità è destinata a segnare a lungo i palati anche più restii. Perché in Puglia è bello tornarci!

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