Riecco al mondo la meravigliosa antichità di Taranto
Gianni Svaldi | 1 August 2016

Al parcheggiatore abusivo che chiede “un caffè” nella strada del museo MarTa che Taranto discenda o no da Sparta interessa poco. Ma se il museo arrivasse a quadruplicare i propri visitatori la sua vita cambierebbe e magari potrebbe trovare un lavoro meno mortificante e sicuramente più legale.

Il giorno dopo l’inaugurazione del secondo piano da parte del premier Renzi, il MarTa non è più una passerella, è un museo archeologico nazionale con un obiettivo: 200.000 visitatori l’anno. La bandierina è lontana, perché oggi ne fa circa 57.000, ma è da raggiungere velocemente perché Taranto vive una drammatica crisi economica. Sono 2.636 le imprese del terziario chiuse in 5 anni (il dato è di Confcommercio) e la disoccupazione qui è persino più preoccupante della media pugliese.
Che di cultura e turismo si può vivere i governi se lo ricordano sempre tardi, solo nei momenti bui, come ripiego: fallito l’acciaio, nella città dei due mari ora si corre ai ripari in tutta fretta. “Non si può avere una società prospera e felice quando la maggior parte dei suoi membri sono poveri e infelici”: basta scomodare per un solo istante il padre dell’economia politica Adam Smith per capire che il futuro della città viaggia su tre direttrici, il mare, il turismo, anche quello culturale e la produzione di ceramiche. Questo succede fuori dal Marta. Dentro c’è storia e speranza per il futuro.

Ci sono almeno tre motivi per visitare il museo di Taranto. Il primo è il più banale ma anche il più esplicativo: con uno solo delle centinaia di pezzi contenuti al MarTa in altri Paesi ci fanno musei interi. La visione è di una bellezza orgiastica dove comanda la ceramica, arte tarantina rimasta invariata nei millenni. Il culto del bello appartiene a questa terra da almeno 8.000 anni, e nei saloni vi sono le prove. Guardando al futuro è chiaro che la ceramica inquina enormemente meno della produzione intensiva di acciaio. Il terzo è che la storia non è noiosa e petulante, se raccontata bene.
Chi va al MarTa si deve soffermare sulle lapidi delle tombe dei romani. Troverà che gli avi dei tarantini avevano sintesi e orgoglio per il lavoro svolto. Dopo le ceramiche, le statue, gli ori, bisogna guardarle quelle “pietre parlanti”. Schiavi, liberti, figli di liberti, legionari in congedo: nome, cognome, lavoro e anni vissuti.

Prima dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, secoli fa, qualcuno sapeva già che le lapidi possono rivelare e raccontare. Come cantava De Andrè nell’album “Non al denaro, no all’amore né al cielo”, che a Lee Masters si è ispirato, ognuno è anche il mestiere che fa. Non si può dire di amare il cantautore genovese, o il poeta statunitense, senza andare al MarTa a guardare coi propri occhi le lapidi dei romani-tarantini. Il sarto rammendatore il ricco latifondista, la nutrice, l’addetto a sollevare le tende della casa del padrone al passaggio degli ospiti, il guerriero in congedo divenuto agricoltore.
Dove mangiavano, dove vivevano, che senso del bello avevano è tutto lì, nel museo di Taranto. Magari tra loro c’è qualche lontano avo del parcheggiatore abusivo che per strada fa su e giù per 20 centesimi o poco più. Lui forse non lo sa ancora, ma se sulla sua di lapide (tra non prima di 100 anni, auspica chi vi scrive) sarà scritto “parcheggiatore abusivo” o “operaio, commerciante, commesso, impiegato” dipende in gran parte dal quel museo nel quale lui non è mai entrato.

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