Il nostro ricordo di Leogrande: “Taranto ha voltato le spalle al mare”
Leonardo Palmisano | 27 November 2017

La prematura, improvvisa morte di Alessandro Leogrande, 40enne scrittore e giornalista originario di Taranto, ci getta nello sconforto più nero. Muore un intellettuale come pochi, che aveva collaborato con noi per una pubblicazione su Taranto. Di seguito, pubblichiamo la prefazione al volume ‘Il Piccolo mare di Taranto’, di cui ci ha fatto omaggio Alessandro un mese fa nell’ambito del progetto Terre Elette.

“Chi distrugge il mare distrugge se stesso, dice Sara, un’alunna della scuola elementare Falcone. Taranto è una città che ha alterato l’equilibrio su cui per secoli si è fondata la propria storia. E lo ha fatto non solo accettando, oltre cinquant’anni fa, di diventare l’epicentro di uno dei più radicali esperimenti di gigantismo industriale novecentesco, quel gigantismo che ha poi prodotto gli alti livelli di inquinamento che tutti conosciamo. Lo ha fatto ogni volta che ha voltato le spalle al mare, e quindi al proprio passato. Ogni volta che ha preferito colate e colate di cemento a un rapporto virtuoso con la natura e la campagna circostanti. Ogni volta che ha sancito urbanisticamente le proprie divisioni e le proprie fratture interne, la creazione di una vita collettiva priva di momenti di condivisione.
Taranto ormai appare piuttosto come un agglomerato di frammenti di città che non hanno la forza di essere chiamati polis, e che solo raramente dialogano tra loro. È una città che ha perso il proprio centro, non solo il suo antico equilibrio. Per questo, per uscire dalla risacca, non occorre solo superare la grave crisi industriale-ambientale che è stata generata. Occorre riammagliare la città intorno al suo fulcro originario. E quel fulcro originario è il Mar Piccolo – un mare che in fondo i tarantini conoscono molto poco.
Quel mare è straordinariamente vivo, ci dice questo libro. Straordinariamente ricco di specie animali a vegetali, come se tale varietà fosse quanto di più distante si possa immaginare dai decenni stantii della monocultura siderurgica.
Ma questo libro ci dice anche che c’è una periferia altrettanto viva, anche se spesso – molto spesso, negli ultimi anni – le è stata negata la parola. Anche se spesso, molto spesso, non si è voluto ascoltare la sua voce. Di quella periferia la scuola e la parrocchia sono stati gli unici centri di aggregazione, oltre a quegli altri, pochi, costituiti informalmente al suo interno. Non solo hai unici punti di aggregazione, ma anche il solo canale in grado di connettere il quartiere percepito come la periferia per eccellenza (Paolo VI) con il  resto della città.
Andiamo in città… dicono spesso gli abitanti del quartiere quando si riferiscono al centro – come se di quella città che ha perso il suo antico equilibrio non facessero parte. E invece sono una parte essenziale, così  come sono parte essenziale di Taranto i problemi di esclusione, non occupazione, alienazione di quelle periferie a cui non si è voluto guardare con occhi aperti. Soprattutto, quegli uomini e quelle donne che hanno provato a disegnare un quartiere diverso, a partire dalle  fratture che lo attraversano, sono i veri Ippocampi sopravvissuti alla catastrofe.
Taranto ha bisogno di guardare se stessa con occhi limpidi.”

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