Alda Merini amò Taranto prima di vederla
La poetessa arrivò nella città dei due mari dopo quattro anni di amoreggiamenti telefonici con Pierri che, molto più grande di lei, cercava di dissuaderla in tutti i modi dall'idea di sposarlo
Silvano Trevisani | 19 June 2019

“Non vedrò mai Taranto bella

non vedrò mai le betulle

né la foresta marina;

l’onda è pietrificata

e le piovre mi pulsano negli occhi.

Sei venuto tu, amore mio,

in una insenatura di fiume,

hai fermato il mio corso

e non vedrò mai Taranto azzurra,

e il Mare Ionio suonerà le mie esequie...”

Quando Alda Merini scrisse questi versi pieni di rimpianto e di nostalgia per “Taranto bella”, nella città dei due mari non ci era ancora mai venuta. Di più: lei non aveva mai visto il mare, in vita sua, e rimpiangeva quell'addio immaginifico rivolgendiosi a un panorama che forse aveva avuto solo modo di vedere in cartolina, forse scambiando per betulle gli oleandri che accompagnano al mare il fiume Galeso. Se si può così interpretare il riferimento al “fiume” che poteva riferirsi a una cartolina ricevuta da Taranto. Ma era tanta la voglia di venirci a vivere, assieme a quel Michele Pierri che conosceva da anni solo al telefono o nelle frenetiche corrispondenze che gli inviava, da immaginarsi senza vita, e da lontano compianta dalle onde del mare.

Il 1° novembre ricorrerà il decimo anniversario della morte. A Taranto si rivolgerà, poi, in altre meravigliose liriche, scritte dopo il ritorno a Milano quando, rimasta vedova di Michele, secondo marito, che morirà nel gennaio 1988, unirà il rimpianto di una città nella quale, secondo un suo stesso scritto “per quattro anni era stata una sposa felice”, alla “rimozione” da lei operata come elaborazione del lutto. Giunta a Taranto come ultima occasione per darsi un futuro nell'ottobre 1984, dopo quattro anni di amoreggiamenti telefonici con Pierri che, molto più grande di lei, cercava di dissuaderla in tutti i modi dall'idea di sposarlo, mentre a Milano nessuno più voleva occuparsi di lei (che nel 1979 era stata dimessa dal manicomio per effetto della legge Basaglia di un anno prima, e poi nel 1983 aveva perso il marito Ettore Carniti, dopo una lunga penosa malattia) vi restò fino alla fine del 1987: Michele era malato terminale bisognoso di cure e lei aveva ancora bisogno di qualcuno si occupasse di lei. Così si rintanò nel reparto neuropsichiatrico dell'Ospedale civile, a pochi isolati dalla casa condivisa con Pierri, che vi conosceva tutti i medici essendo stato direttore sanitario, ma poi si fece riaccompagnare a Milano da due figli di Michele.

 

Negli anni di Taranto visse una singolare storia di amore improntata alla poesia, col marito che era stato stimato poeta amato da Spagnoletti, da Pasolini, da Ungaretti, da Betocchi e tanti altri e divenne una cittadina tarantina. “Pierri era un uomo molto gentile e signorile, nella sua età avanzata, - mi ha raccontato Emanuela Carniti, figlia primogenita di Alda - e aveva un aspetto bonario e accorto. Capivo che mamma amava molto Taranto, la descriveva e ne parlava con un certo orgoglio. So di sicuro che mamma amava moltissimo il mare e che prima di venire a Taranto non lo aveva mai visto, perciò ne era attratta e ce ne portava un poco nei suoi racconti”.

E proprio “Alda Merini Tarantina” è il titolo dell'antologia che le abbiamo voluto dedicare coinvolgendo nell'operazione alcuni dei più noti poeti pugliesi viventi, che le hanno resto un omaggio in versi, che serve a riparare una distanza venutasi a creare, negli anni, anche per un equivoco atteggiamento di una parte della critica che non ha saputo o voluto approfondire gli anni fondamentali di Taranto, nei quali videro la luce opere come “le Satire della Ripa”, “Diario di una diversa”, “La Terra Santa”, nelle due versioni di Scheiwiller e di Lacaita, “Satire e poesie”, e altre raccolte pubblicate successivamente. Insomma: il meglio della sua produzione. In “Delirio amoroso” Alda racconta: “Io mi ero innamorata, ma in modo così distruttivo e totale da perdere l'identità. E quando mi sottrassero lui persi anche il principio del mio amore, il che significa, virtualmente, perdere la ragione di vita. Di questo non sapevo chi incolpare ed io ero già totalmente impregnata di colpa, che altri pesi non avrei saputo sopportare. Mi addentrai così, quasi stupidamente, nella psichiatria tarantina”. Ecco il punto: Alda Merini non può che incolpare il destino, ineluttabile, per l'imminente perdita di Michele, il cui dramma non sa affrontare. Non è certo l'inesistente manicomio di Taranto ad aggravare i suoi problemi, ma la nuova solitudine cui la vita la condanna, assieme alla fine del benessere economico che Michele, in vita, le aveva assicurato.

 

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