Ahmed Ben Amor, attivista per i diritti dell’uomo e delle comunità LGBQT. Nel cartello: “La mia vita privata non è un affare di Stato”
“Io, figlio di un imam, torturato perché gay”
Redazione | 3 April 2017

In Tunisia se sei omosessuale “può capitarti di essere fermato, rapito e violentato con un manganello” La storia di Ahmed, fuggito in Francia. Ora  è attivista per i diritti dell’uomo e delle comunità LGBQT, cofondatore dell’associazione Shams

 – Nostro servizio –

Nonostante la Costituzione riconosca e protegga i diritti inviolabili dell’essere umano, l’articolo 230 del Codice Penale tunisino prevede tre anni di carcere per la sodomia e il lesbismo. In pratica, tutti gli appartenenti alla comunità LGBQT (Lesbians-Gays-Bisexual-Queer-Transexual) sono a rischio carcere. Ahmed Ben Amor è un ragazzo di 20 anni che ha deciso di condividere con noi la sua storia. È uno dei figli della Rivoluzione, uno dei tanti che credeva davvero in un cambiamento e nella possibilità di vivere la propria sessualità senza nascondersi o fuggire per vivere una vita serena.

Iniziamo da chi sei?

Sono Ahmed Ben Amor, ho vent’anni, nato a Mahdia, una città costiera della Tunisia. Sono un attivista per i diritti dell’uomo e delle comunità LGBQT, cofondatore dell’associazione SHAMS (associazione che lotta per i diritti della comunità lgbqt presente in Tunisia, in modo particolare per l’abolizione della legge 230). Sono gay.

Che significa essere gay in Tunisia?

Essere gay in Tunisia significa non essere in grado di vivere una vita normale. La società tunisina è chiusa nei confronti del diverso, in modo particolare per chiunque abbia un orientamento sessuale diverso da quello etero proprio perché in Tunisia l’omosessualità è un tabù.

Quindi cosa vuol dire per un gay fare coming out?

Proprio il fatto che l’omosessualità è un tabù è il primo vero e proprio fattore negativo per un ragazzo gay  o una ragazza  lesbica: non riescono a trovare qualcuno con cui confidarsi, parlare o soltanto cercare di capire quali sono i loro sentimenti, emozioni e sensazioni. Capiscono che per essere gay sono costretti a vivere nascosti, devono convivere con la ostinata rassegnazione di non poter essere se stessi diventano paranoici perché non vogliono destare l’attenzione e cercano in tutti i modi di comportarsi in modo tale da non destare sospetto.

Come è il tuo rapporto con la religione islamica? 

La religione islamica è la religione di stato. Il fatto è che non credo che l’Islam riesca a offrire delle risposte dirette per quanto riguarda all’omosessualità e quindi non riesce a spiegare questo fenomeno così delicato. È per questo che non riescono a trovare nemmeno conforto dalla religione e si trovano assolutamente persi.

E’ stato difficile fare coming out?

Dico sempre che ho dovuto fare due coming out: uno con la mia famiglia e l’altro con la società in cui vivo. Mio padre è un imam, quindi nella mia famiglia c’è una grande tradizione religiosa. La mia famiglia ha scoperto la mia omosessualità quando avevo sedici anni in maniera assolutamente accidentale. Infatti ero fuori casa e avevo lasciato sul pc finestre aperte in cui vi erano siti e blog di persone che appartenevano alla comunità LGBQT (in alcuni dei quali scrivevo anche io) e dunque, arrivato a casa, mio padre mi chiese esplicitamente se fossi o meno gay, risposti di esserlo e di lì cominciò un altro capitolo della vita.

Cosa è successo?

Mio padre era molto inalterato e triste, non sapeva come agire. Per prima cosa mi rinchiuse nel ripostiglio mi appese al lampadario, lasciando la porta aperta; chiamò i miei zii e chiedeva ripetutamente a loro cosa dovevano fare per sbarazzarsi di me. Uno di loro propose persino di prendermi e lanciarmi dal terzo piano e dire a tutti che ero stato io a suicidarmi: la sua proposta fu bocciata perché una delle mie zie disse che sarebbe stato rischioso se fossi sopravvissuto e confessato tutto alla polizia. Mio padre ad un certo punto prese un coltello ed iniziò ad accoltellarmi da tutte le parti: dalle mie gambe sino alle braccia. Le mie urla avevano attratto una nostra vicina di casa che corse in casa e costrinse la mia famiglia a portarmi in ospedale, minacciandoli dicendo che se no avrebbe chiamato la polizia

Poi?

Mi portarono in ospedale, venni curato ma sapevo che non potevo tornare in quella casa: se fossi ritornato non ne sarei mai uscito vivo. Così ho atteso che il medico mi venisse a visitare e gli confessai tutto, lui mi disse cosa fare per fuggire dall’ospedale senza che qualcuno mi vedesse. Fuggì e chiamai un mio amico che mi venne a prendere e mi portò fuori da Mahdia. Non ho rivisto i miei genitori o nessun altro della mia famiglia dopo quell’episodio.

Qual è stato il tuo secondo coming out?

Il mio secondo coming out è stato alla fine dell’anno scolastico del mio quarto superiore. Ero stato ospite di una trasmissione radiofonica tunisina dove parlavo di omosessualità e omofobia. Il video del mio intervento divenne virale e dunque venni riconosciuto dall’amministrazione del liceo che frequentavo. Quel video è stata la ragione per cui sono stato espulso da quella scuola. Da qui venne a me, e alcuni miei amici l’idea, di fondare SHAMS, un’associazione che cercasse di riunire le ragazze e i ragazzi che non riuscivano a trovare chi li ascoltasse e sostenesse.

Come era il tuo rapporto con le istituzioni?

Dopo aver fatto coming out ed aver fondato Shams, il 3 ottobre del 2015 mi sono ritrovato ad avere grossi problemi a scuola. Difficoltà tanto grandi che tutt’ora non ho ancora ottenuto il mio diploma di maturità.

E’ cambiata la tua vita dopo il coming out?

Dopo il mio coming out ho subito minacce, violenza fisica e verbale. Nei social networks continuavo ad avere messaggi in cui ragazze e ragazzi mi insultavano, minacciavano e mi consigliavano persino di suicidarmi; per la strada della Tunisa venivo spesso aggredito. Tutt’ora ho paura di circolare liberamente, di parlare con estranei o persino dare fiducia a qualcuno.

Hai subito violenze?

Una giornata di agosto 2016 ero di ritorno da Sousse in un pullman. Ero seduto davanti, di fianco all’autista. Due persone mi avvicinarono e dicendo di avere un’autorità per farlo (mostrarono un tesserino ndr), mi invitarono ad uscire dal pullman e di seguirli nonostante le mie proteste. Iniziarono a chiedermi cosa ci facessi lì, ad insultarmi pesantemente e non voler lasciarmi andare, nemmeno dopo aver ribadito che ciò che stavano facendo era illegale. Agitati dalle mie parole mi portarono in una zona lontana dall’autostrada, piena campagna e mi stuprarono con un grosso manganello. Ricordo di essere appena uscito dall’ospedale perché ero stato aggredito giorni prima.

Pensi che la Tunisia sarà mai pronta ad accogliere con serenità chi è diverso?

In Tunisia il diverso non viene facilmente accettato da parte della società. Le minoranze presenti, fra cui le donne, i giovani, persone di altre religioni, spesso non riescono a sentirsi perfettamente integrate all’interno della società tunisina. Penso che questo sia dovuto a numerosi fattori che ha portato la Tunisia a regredire rispetto a quarant’anni fa.

In che senso?

Negli anni sessanta i tunisini erano ancora imbevuti di tutti quei principi di libertà ed uguaglianza e dunque nonostante ci fossero comunque numerosi pregiudizi nei confronti della comunità LGBQT presente, nessuno si permetteva mai di aggredire qualcuno perché era gay o comunque manifestava degli atteggiamenti che non erano ritenuti “normali”.

Secondo te cosa è cambiato?

È colpa dei mass-media, soprattutto i canali televisivi del medio oriente. Infatti questi canali trasmettevano dei programmi in cui Imam iniziavano a spiegare le sure del Corano, spesso davano delle interpretazioni estremiste e sbagliate che trasmettevano nei tunisini delle ideologie chiuse. La loro intolleranza è comunque risolvibile con un processo che ha come protagoniste le istituzioni.

Che ruolo hanno le istituzioni?

Fondamentale, ad iniziare dall’abolizione dell’art. 230, cercare di dare la possibilità a tutti di sentirsi tunisini, di sentirsi appartenenti ad una nazione a prescindere dal colore della pelle, orientamento sessuale, genere o religione. Tutto ciò è tutelato dalla Costituzione ma non dal Codice Penale. Lo stato tunisino deve assicurare protezione e sostegno a tutti, affinché a nessuno accada ciò che è successo a me e molti altri ragazzi e ragazze. Bisogna dare spazio alla cultura, all’arte e all’informazione libera.

Quindi la Tunisia può cambiare?

Si ma è un processo lungo e lento.

Quali sono le tue speranze oggi, Ahmed?

Sono figlio della Rivoluzione, credevo davvero a quei principi, a quella primavera araba che avrebbe permesso a tutti di essere se stessi e di vivere dignitosamente all’interno dei propri paesi. Ciò che ho ricevuto è stato tutt’altro, sono stato tradito e rinnegato dal mio stesso paese e oggi vedo la Tunisia una nazione a cui ho dato tutto e non ho ricevuto nulla. Non ho il diritto di studiare, vivere serenamente o persino usufruire dei miei diritti. La mia speranza è quella di continuare i miei studi e diventare un avvocato, per poter coniugare il mio attivismo con la mia professione: tutto ciò lo potrò fare solo all’estero e non nel paese in cui sono nato e cresciuto.

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