Tra migranti, caporali e volontari: a Borgo Mezzanone la speranza corre in bici
Reportage tra i raccoglitori di pomodori. Un business da 3 miliardi di euro ma a chi si spacca la schiena sotto il sole cocente vanno 3 euro e 50 l’ora. La storia dei volontari che riparano gratis le biciclette, per sottrarre i lavoratori dal giogo dei caporali
Tiziana Sforza | 28 August 2017

BORGO MEZZANONE – Estate 2017. Una torrida estate. L’ennesima ondata di calore. “Lucifero” ci ha tolto il respiro per quasi tutta la prima decade di agosto. In Puglia, dove la canicola si è fatta sentire più che in altre regioni, la sera trovavo un po’ di sollievo gustando una ricetta tipica di queste parti: la frisella condita con pomodoro, sale, olio e origano. Mi sono interrogata sulla provenienza di quel pomodoro fresco, succoso, gustoso, cresciuto grazie al sole della mia terra, raccolto in un modo che ha poco a che vedere con questo idillio gastronomico.
Il reclutamento di manodopera dedita alla raccolta è noto con il nome di “campagna estiva del pomodoro” che può avvenire in modo legale – tramite agenzie di lavoro interinale o siti internet dedicati alle offerte di lavoro – o può avvenire in modo clandestino – attraverso i caporali che reclutano manodopera per conto dei proprietari terrieri.
La mia attenzione si è soffermata su questa seconda modalità che, secondo il rapporto “Spolpati” pubblicato nel novembre 2016 nell’ambito della campagna #FilieraSporca dell’associazione Terra!, interessa il 15% della raccolta di pomodoro nel Sud Italia, effettuata da braccianti stranieri attraverso la gestione del caporalato. I migranti sono pagati a cottimo, a seconda dei cassoni che riescono a riempire. Generalmente guadagnano 30 euro al giorno, di cui una decina vanno versati giornalmente al caporale che assicura loro cibo, trasporto nei campi, ricarica del cellulare, un materasso sbrindellato su cui dormire, un posto in una baracca.

Borgo Mezzanone, quattro case e una strada statale
Come vivono quei migranti che raccolgono i pomodori spaccandosi la schiena sotto il sole per 3 euro e 50 l’ora? Che sogni hanno? Che cosa li trattiene in questa terra dove attendono tutte le sere la chiamata del caporale per sapere se lavoreranno o meno l’indomani? Per scoprirlo sono andata a Borgo Mezzanone (provincia di Foggia) e ho partecipato al campo di volontariato “Io ci sto”, organizzato da missionari Scalabriniani e diocesi di Manfredonia. Il ghetto di Borgo Mezzanone, così come il Gran Ghetto di Rignano Garganico smantellato lo scorso aprile, appartiene a quella categoria di luoghi saltuariamente evocati dalle cronache locali, che sconfinano dalla dimensione provinciale solo quando c’è di mezzo una tragedia, quando un incendio devasta le baracche e ci scappa il morto, quando un migrante molesta una vecchietta e la popolazione locale si schiera in trincea aizzata dai soliti populisti, quando i braccianti protestano davanti alla prefettura affinché vengano fatti controlli per debellare le ataviche forme di caporalato. Diversamente, ci si guarda bene dal dedicare spazio e approfondimenti a questo angolo dimenticato della Puglia. Sarebbe una macchia sulla reputazione della novella “perla del turismo”. Ai media piace parlare della movida del Salento, di Madonna che festeggia il compleanno a Borgo Egnazia, di Macron che stava facendo un pensierino sulle vacanze in Puglia prima che gli consigliassero di rimanere in Francia…
Raramente si parla della Puglia di Borgo Mezzanone: una manciata di case inframezzate da una strada statale, un bar e una piazzetta di fronte alla parrocchia. In definitiva, un paesino insignificante di 400 abitanti. Che cosa rende “speciale” Borgo Mezzanone? E’ circondato da un CARA che ospita 1400 richiedenti asilo (è il secondo centro d’accoglienza richiedenti asilo più grande in Italia, dopo quello di Mineo), da sei CAS ciascuno dei quali ospita circa 40 richiedenti asilo, e da una baraccopoli (“la pista”) in cui vivono circa duemila braccianti che lavorano nelle campagne per un salario indecente. Raramente si parla degli slanci di accoglienza e delle iniziative di integrazione promosse dagli abitanti di questa terra, di quello che di buono può nascere dalla cultura dell’incontro e dalla convivenza delle diversità.

Tutti in pista
La “pista” si chiama così perché è letteralmente la pista di un vecchio aeroporto NATO utilizzato ai tempi della Guerra nei Balcani per ospitare i kosovari. Oggi è una no men’s land. Tutti sanno che esiste, tutti fanno finta che non esista. Fino all’anno scorso sulla pista vivevano circa 400 persone. Oggi ne vivono circa 2000, provenienti perlopiù da Afghanistan, Sudan, Somalia, Eritrea, Mali, Senegal, Ghana, Burkina Faso, Costa D’Avorio. Nei fatti la pista Borgo Mezzanone ha accolto molti dei migranti che prima vivevano nel Gran Ghetto di Rignano Garganico, smantellato nella primavera di quest’anno. Ai due lati della pista si sviluppano file di baracche, container e roulotte scalcinate. E’ una discarica di rifiuti a cielo aperto. In alcune baracche fioriscono business informali che soddisfano bisogni di prima necessità: un bar, un bordello dove esercitano le prostitute nigeriane, bancarelle che espongono abiti e scarpe di seconda mano… Cani e gatti randagi ridotti pelle e ossa si aggirano fra i rifiuti. Carcasse di televisori sono ammucchiate lungo il tracciato della pista. Sacchetti di plastica disseminati nelle campagne circostanti ondeggiano al vento: puntini blu e bianchi che si confondono al giallo dell’erba secca. Mi aspettavo tutto questo prima di arrivare qui. Lo avevo letto nel libro-inchiesta “Ghetto Italia”, scritto dall’etnografo Leonardo Palmisano e dal sindacalista Yvan Sagnet: “Non sembra possibile che una terra così placida e noiosa possa ospitare migliaia di esseri umani, stipati come bestie in decine di accampamenti e di isolati casolari. Ma le cose stanno così, e nessuno pare volersene occupare davvero”. Ma vederlo con i miei occhi e percepirne gli odori mi ha dato un senso di vertigine.

Agromafie e caporalato
Perché questi migranti vivono e lavorano qui? Qual è il sistema economico che favorisce la loro presenza? Il terzo rapporto “Agromafie e caporalato” dell’Osservatorio Placido Rizzotto FIA-CGIL, presentato nel maggio 2016, offre una fotografia inquietante di questo spaccato di Italia agricola che se ne frega delle regole, dei contratti di lavoro e della dignità umana. Iniziamo con i numeri per inquadrare il fenomeno: l’infiltrazione mafiosa e criminale nella gestione del mercato del lavoro attraverso la pratica del caporalato alimenta un’economia illegale e sommersa di un valore compreso fra i 14 e i 17,5 miliardi di euro in Italia. In alcuni casi, allo sfruttamento in agricoltura si affianca il fenomeno della tratta degli esseri umani, cosa che non stupisce considerando la richiesta di manodopera a basso costo necessaria per garantire alti margini di guadagno a caporali e grossisti. Il salario oscilla fra i 20 e i 30 euro al giorno (inferiore del 50% di quanto previsto dai CCNL e CPL). Di questi, circa 10 euro tornano nelle tasche del caporale: 50 centesimi per un materasso poggiato a terra, 50 centesimi per caricare il cellulare, 3 euro e 50 per mangiare, 5 euro per il trasporto sul camion che fa la spola fra il ghetto e le campagne in cui avviene la raccolta. Si lavora nei campi da un minimo di 8 a un massimo di 12 ore. Spesso si viene pagati a cottimo – pratica esclusa dalle norme di settore – a seconda del numero di casse di pomodoro (di solito 3 euro e 50 a cassa). Secondo il rapporto, in tutta Italia sono circa 430mila le vittime del caporalato nelle sue diverse forme. Stringiamo il mirino sulla provincia di Foggia, uno degli ottanta distretti agricoli mappati dal rapporto. Vi lavorano prevalentemente africani (Mali, Costa D’Avorio, Senegal, Guinea Bissau…) e, da qualche anno, bulgari e rumeni che – accettando salari ancora più bassi – hanno portato a una ulteriore destabilizzazione del mercato e ad aspri conflitti fra gli stessi migranti. Che fine fanno i pomodori raccolti? Non tutti sono destinati al mercato locale (quello della mia frisella, per intenderci). Il pomodoro da industria rappresenta uno dei principali prodotti dell’agricoltura italiana, generando un fatturato di circa 3 miliardi l’anno. Il 60% è inviato all’estero, il 40% rimane in Italia. Infatti, dopo Stati Uniti e Cina, l’Italia è il terzo trasformatore mondiale di pomodoro. L’inchiesta “Ghetto Italia” analizza anche questo aspetto: “La metà del raccolto resta in Italia, viene trasformato nelle grandi aziende della Campania e del Lazio, come la Cirio, la De Santis e la Doria. La Princes, invece, che è di proprietà della Mitsubishi Corporation, è praticamente la sola grande impresa a trasformare il pomodoro in Capitanata”.
Si tratta di uno stabilimento nella zona industriale vicino a Incoronata, nato nel 2012 con il nome di Princes Industrie Alimentari (PIA). Fa parte della Princesgroup, una multinazionale alimentare con sedi operative in Italia, Inghilterra, Giappone e Isole Mauritius. Sul proprio sito proclama di aver sposato i principi della responsabilità sociale di impresa, menziona la propria attenzione alla sostenibilità ambientale, alla promozione di salute e benessere e all’equità come partner e datore di lavoro. Mi domando se dedichi la stessa attenzione al controllo della supply chain, ossia la rete di fornitori che assicurano la materia prima – il pomodoro – a prezzi bassissimi, consentendo la produzione di conserve di pomodori venduti a prezzi stracciati sugli scaffali dei supermercati.

Il ruolo della grande distribuzione organizzata
Le responsabilità della GDO (grande distribuzione organizzata), che potrebbero essere altrettanto rilevanti nell’alimentare le pratiche di sfruttamento dei lavoratori, sono spiegate nel rapporto “Spolpati”. Le aste on-line lanciate da alcuni attori della GDO per l’acquisto degli stock dall’industria sono basate sul meccanismo del doppio ribasso: “la GDO invia una e-mail agli industriali chiedendo loro di avanzare un’offerta per una certa partita di prodotti, ad esempio un milione di scatole di passata. Basandosi sull’offerta più bassa, la GDO convoca poi una seconda asta on line, della durata di poche ore, in cui i partecipanti sono chiamati a ribassare ulteriormente il prezzo di vendita. Questo sistema coinvolge l’industria in un gioco d’azzardo che scarica i suoi effetti distruttivi sugli agricoltori. Offrendo i prodotti a cifre che sfiorano il sottocosto prima della stagione di raccolta, gli industriali devono rivalersi sui produttori per conservare un margine di guadagno”. Da qui deriva la necessità di mantenere basso il costo del lavoro di raccolta dei pomodori, cosa garantita dalla selezione rapida, efficace ed efficiente operata da caporali, un ingranaggio immancabile nella catena di sfruttamento del lavoro di campagna.

Nell’inferno un segno di speranza
Sulla pista di Borgo Mezzanone non trovo solo degrado e miseria, ma anche segni di speranza: la radio dei volontari di Rete Campagne in Lotta (nata nel Gran Ghetto di Rignano Garganico) che trasmette musica e notiziari in podcast, due chiese e due moschee, i volontari del campo “Io ci sto” che animano la ciclofficina e la scuola di lingua italiana.
Perché riparare le biciclette dei migranti? La bicicletta per loro è ben più di un mezzo di trasporto: è un modo per emanciparsi dal caporale che sennò imporrebbe il pagamento di 5 euro al giorno per arrivare sui campi.
Sono tanti i migranti che sfrecciano per le strade della Capitanata su bici sgangherate a qualunque ora del giorno e della notte. Vanno a lavorare nei campi, vanno a Foggia per inviare i soldi alla famiglia, vanno in questura per rinnovare il permesso di lavoro, vanno alla scuola di italiano, a fare la spesa…

Facendo la volontaria nella ciclofficina allestita sulla pista ho ascoltato la storia di Mamadou, un giovane meccanico fuggito dalla regione della Casamance in Senegal dove si consuma da 30 anni un conflitto di matrice indipendentista. Ho chiacchierato con Zinedine, che vive in Italia da dieci anni per pagare gli studi alle sue due figlie rimaste nel Mali. Ho parlato di Europa con Bamba, venuto dalla Costa d’Avorio, che sta mettendo i soldi da parte per trasferirsi in Germania dove – così gli hanno detto – per lui ci sarebbe possibilità di lavorare in fabbrica a un salario dignitoso, e intanto studia tedesco dallo smartphone con delle app gratuite. Storie di vita si intrecciavano sulla pista in quei pomeriggi caldissimi e assolati in cui sostituivo camere d’aria, stringevo leve dei freni, riposizionavo catene e rimpiazzavo pedali rotti. Parole che si perdevano nel vento forte di quelle campagne puntellate da pale eoliche.
E mentre imparavo a distinguere una chiave inglese da una chiave a brugola, una pinza a becchi da un tronchese, uno smaglia catena da un tira raggi, in realtà stavo dando un volto ai numeri e alle percentuali citati nei vari rapporti che avevo letto, vedevo le conseguenze devastanti di un sistema agricolo malato e nelle mani di agromafie e caporali, percepivo il sapore amaro che può avere il pomodoro delle friselle servite sulla mia tavola nelle sere d’estate.

 

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