“L’usuraio ti presta 10.000 € ma vuole 1.000 € al mese di interessi”
Michela Di Trani | 30 March 2018

Usura, la storia vera di Rodolfo: “Quando ne esci, non hai più paura, hai voglia di parlare, di dire la tua verità, perché in quegli anni si è detto di tutto su di te e la tua famiglia (seconda parte)
«Non posso dimenticare quella mattina, alle 7 mi squillò il cellulare e una voce mi disse di scendere. Sentì per la prima volta gli uccellini cinguettare, il profumo della vita, il sole splendeva e il cielo era azzurro. Era il giorno dopo la mia prima deposizione contro coloro che negli ultimi 4 anni mi avevano fatto più volte desiderare la morte, i miei  “amici” usurai. Amici appunto. Perché loro erano diventati tutta la mia vita. Da quando sono entrati hanno fatto terra bruciata intorno a me. È come se ti prendessero tutto, anche l’anima, il cervello. Non solo il tuo denaro, anche quello dei tuoi familiari, mia madre e mia sorella si sono indebitate nella speranza di
aiutarmi ad uscire dall’inferno dell’usura, da cui senza l’aiuto delle forze dell’ordine o di persone specializzate, non se ne sarei uscito. Una sicurezza, di cui si ha consapevolezza, solo quando ne sei fuori. Quando sei dentro, diventi uno di loro, perché sei disposto a fare tutto per paura di ritorsioni nei confronti dei tuoi cari. Ma quando ne esci, non hai più paura, hai voglia di parlare, di dire tutto quello che sai, di dire la tua verità, perché in quegli anni si è detto di tutto su di te e la tua famiglia. Vuoi raccontare come sono andate davvero le cose, perché i pettegolezzi, i pregiudizi e le discriminazioni che si abbattono su te e sulle persone care sono altre ingiustizie e violenze che si aggiungono a quella dell’usura. Mia figlia il primo giorno di scuola è tornata distrutta: le amichette hanno fatto gruppo tra loro, isolando lei. Il giorno dopo non è più voluta tornare. Oggi sono qui per parlare, vorrei che le nostre sofferenze non andassero perdute. È iniziato tutto nel 2007 quando ho scoperto degli ammanchi di cassa nella gestione di una piccola impresa edile societaria. Eravamo in due nella società, abbiamo iniziato da zero, avevamo raggiunto una bella posizione economica, ma con la crisi economica sono iniziate le prime incomprensioni, voleva licenziare in tronco i 12 dipendenti, non voleva pagare i fornitori, voleva dichiarare il fallimento della società. Poi si arrivò agli ammanchi di cassa… La parola fallimento nel mio vocabolario non esisteva, perché mio padre mi ha insegnato che i debiti si onorano.
Con il mio socio ci fu la rottura senza ritorno. Ci dividemmo i debiti e i crediti. Io, più di lui, mi accollai il mutuo ipotecario di un terreno, pensando di potercela fare. Ma non andò come sperato, la crisi fece la sua parte. Tutto cominciò quando un fornitore che avevo pagato con un assegno posdatato non rispettò i patti e portò l’assegno in banca per l’incasso.

Ero disperato non volevo farmi protestare. Mi confidai con un mio conoscente che mi presentò un “amico”. In quel momento almeno lo sembrava, sembrava essere l’unica ancora di salvezza. Quel momento invece fu l’inizio del tracollo. Un prestito da 10mila euro diventò la mia persecuzione. Pretesero la restituzione in un’unica soluzione, ma non avrei mai potuto farcela, perché nel frattempo maturavano 1.000 euro di interessi al mese e per ogni giorno di ritardo dalla scadenza scattavano altri 100. E poi ci furono i lavoretti da loro commissionati di ristrutturazione delle ville e delle abitazioni personali o dei loro familiari che puntualmente non erano mai pagati, ma che contribuivano a svuotarmi di tutto, non solo di risorse, ma anche di opportunità di lavoro. Intorno si spense tutto, il buio più totale. Ci fu l’opportunità che prendessi un lavoro, improvvisamente i committenti si tirarono indietro. Sicuramente avevano preso informazioni. Con il senno di poi dico che andò bene così, perché mi paventarono lavori in cui io avrei fatto da prestanome e loro avrebbero gestito. Nella mia vita restarono solo loro. E quando mi prosciugarono del tutto, presero a utilizzarmi per fare dei lavoretti sporchi. Vennero anche al funerale di mio padre, la mattina a farmi le condoglianze, il pomeriggio a battere cassa: una sera con la mia macchina, non sospettabile dalle forze dell’ordine, consegnammo un pacco che solo dopo ho saputo contenere due pistole. In quel momento capii che ero diventato uno di loro. Io posso immaginare la disperazione di tante persone che si suicidano.

Finché un giorno, che sembrava come tanti, arrivò finalmente la fine. Venne a trovarmi il mio “amico”, voleva i soldi, mi minacciava. Parlava e parlava, mi diceva che se non li avessi procurati ci avrebbero sparati entrambi, ma io non lo ascoltavo perché mi attraversavano solo pensieri di morte. Volevo farla finita. Me lo lesse negli occhi e mi disse: “Non lo fare, altrimenti saranno tua moglie, i tuoi figli e le tue sorelle a pagare”.
Dopo quattro anni di inferno, quello fu l’inizio della fine per loro. Mi rimbombarono nelle orecchie i pianti dei miei figli. Mi scattò una rabbia e un desiderio di vendetta, di lottare contro di loro e di farla finita. Un percorso che cominciò a maturare dentro piano piano, grazie anche alle mie sorelle che non mi hanno mai abbandonato. Quella che lavorava con me fu la prima a capire tutto perché, sebbene lavorassimo tanto, vedeva indebitarci sempre più. Mi chiedeva dove andassero a finire i soldi, io volevo tenerle all’oscuro di tutto perché mi illudevo di uscirne da solo. Finché un giorno le mie tre sorelle si fecero trovare da sole a casa unite e determinate a conoscere la verità, mi chiesero di raccontare giurando su nostro padre. Raccontai tutto. Una di loro era pronta ad andare alla Polizia per denunciare me e i miei aguzzini. Ma io l’anticipai. Ero già in contatto con una persona che ci era passata prima di me, che si era rivolta alla Fondazione. Una mattina ci incontrammo, mi raccontò il suo percorso, a cosa sarei andato incontro e poi insieme andammo alla Polizia per denunciarli. Arrivammo alle 19 e ne uscimmo alle 4 del mattino.

Il commissario mi lasciò con una promessa: “Io ti fermo tutto, ma ti anticipo che davanti a te c’è una strada in salita”. Ci fu l’arresto subito dopo. Mi sembrava di stare in un set cinematografico. Il mio edificio era circondato di poliziotti, fuori e dentro. Ero terrorizzato, ma loro mi tranquillizzarono dicendomi che era finita. E così nel mio ufficio, mentre il mio amico intascò il denaro per l’ultima volta, si spalancò la porta e, come in un film, irruppe un grido “Polizia” e lo ammanettarono. Mi voleva uccidere con gli occhi. Uno gli mollò un ceffone e gli disse: “Guarda me, gioca con me vediamo che sai fare”. Era un incensurato, fece 20 giorni di galera e 6 mesi agli arresti domiciliari. Mia madre e mia moglie furono tenute all’oscuro di tutto fino al momento dell’arresto. Ricordo che avevo una maglietta bucata al taschino che conteneva una telecamerina che filmava tutto, mia moglie voleva buttarla, dovetti insistere molto per continuare a indossarla. Ma arrivò anche per loro il momento della verità. Un giorno, quasi in preda ad una crisi di panico, perché cominciava a sospettare di qualcosa – non ero mai casa, e quando c’ero, era come se non ci fossi – andò da mia madre pensando che lei sapesse e le chiese tutta la verità. Intervennero le mie sorelle, la calmarono, la portarono via da mia madre e quando furono sole le raccontarono
tutto. Quando terminai la deposizione fu bellissimo tornare a casa e trovare tutta la mia famiglia riunita che mi aspettava, per le scale mi venne incontro a braccia aperte il più piccolo dei miei nipotini. Restai sveglio per tutta la notte, la mattina dopo alle 7 i poliziotti erano già sotto casa. Quando scesi sentii gli uccellini cinguettare, ricominciai ad amare la vita. Si aprì un altro mondo davanti a me. Le forze dell’ordine diventarono tutta la mia vita, insieme alla mia famiglia.
Venivano a prendermi, mi riportavano a casa, perché non avevo i soldi nemmeno per la benzina. Anche se mi resi conto che loro erano entrati nella mia vita molto prima che io me ne accorgessi. Un giorno sono stato convocato dalla DDA e quando arrivai in caserma riconobbi subito uno degli agenti. Una notte ero in giro con il mio amico, ci fermò e ci perquisii. Era lo stesso che passava e ripassava sotto casa, che vidi passare quando feci i lavori di ristrutturazione della casa del fratello dell’usuraio. Realizzai in quel momento che sapevano tutto già da tanto. Gli chiesi perché non mi avevano fermato prima, magari arrestato quella notte della perquisizione. Mi risposero che a loro interessava prendere tutta l’organizzazione, non il singolo.

Da quel momento iniziò la preannunciata strada in salita. Non avevo più loro alle costole, ma c’erano i fornitori che pretendevano i pagamenti. Alcuni mi incalzavano con minacce, uno mi si presentò accompagnato da un tipo poco raccomandabile. Avvisai la Polizia. Quando vennero a ritirare quei pochi soldi che riuscii a raccogliere, la mia abitazione era circondata da poliziotti, che al mio segnale (mi dovevo togliere il cappello per avvisare che avevo consegnato i soldi) intervennero e li ammanettarono. Ci sono stati momenti in cui non avevo il denaro per comprare da mangiare ai miei figli e per mandarli a scuola. Erano spariti tutti da intorno a me, anche gli amici e le tante persone cui avevo fatto del bene. Rimase solo un amico che mi portava la spesa a casa, oppure al supermercato, arrivati alla cassa, mi metteva i suoi soldi in tasca e mi chiedeva di pagare il suo e il mio carrello. Mio cognato mi portava il pane e il latte tutti giorni.
Dovetti lasciare la casa in cui vivevo per prenderne una più piccola, attualmente non paghiamo l’affitto in quanto compensiamo con i servizi domestici che mia moglie fa alla famiglia del titolare. Fui costretto ad andare anche alla Caritas a prendere gli alimenti per la mia famiglia, fu davvero umiliante, mi vergognai. Le prime volte andò per me il mio amico o sua moglie. Poi presi coraggio, mia moglie e miei figli avevano fame, e con la testa bassa per non farmi riconoscere cominciai ad andarci personalmente. Furono tra i momenti più bui e tristi della mia vita. Dopo la denuncia ci fu il vuoto assoluto intorno a me, nessuno si avvicinava, anche per dirmi solo “Come stai”, e di darmi il lavoro nemmeno a sognarlo.
Riprendere fu dura. Una persona mi contattò per realizzare una cappella funeraria, ero felicissimo, ma prima di iniziare i lavori mi chiamò per dirmi che era costretto a rompere il contratto perché la gente gli aveva tolto il saluto. Gli dissi di stare tranquillo. Di episodi analoghi ne potrei raccontare tanti. Arrivai anche a vendere le attrezzature da lavoro. Andavo nel magazzino sceglievo quelle di cui potevo fare a meno con la speranza di poterle ricomprare. Invece a distanza di poco tempo ero costretto a tornare in deposito per prenderne altre. L’umiliazione e la rabbia più grandi furono quando, nel fare il prezzo di vendita, me le deprezzavano adducendo come motivazione che non ne avevano bisogno, anzi mi stavano aiutando. Non potevo nemmeno replicare più di tanto altrimenti avrei perso anche quella possibilità di realizzare quei due o trecento euro che erano disposti a darmi. Ho dovuto subire anche questo tipo di violenze morali e psicologiche. Ero completamente solo. Nessun aiuto da parte dello Stato.
Sono passati quattro anni dalla denuncia e ancora non sono arrivati i fondi, al momento c’è solo una lettera che comunica lo stanziamento. Solo nella Fondazione di Don Alberto trovai il sostegno e la guida legale, morale e psicologica ed economica. Mi prestarono 5mila euro, che mi consentirono di pagare gli affitti arretrati, le bollette delle utenze domestiche. Ma non mi sono mai perso d’animo finché non ho incontrato un imprenditore, per cui sto lavorando ancora oggi. Al primo appuntamento volli dirgli subito quale fosse la mia condizione prima che lo venisse a sapere dagli altri. Mi rispose che il lavoro era mio e non me lo avrebbe tolto nessuno. Anzi, mi disse: “Iniziamo subito, così cominci a incassare qualcosa”. Anche qui non è stato tutto facile. Appena ho iniziato questo lavoro, ho trovato un socio, ma i miei aguzzini hanno fatto in modo, che anche lui si allontanasse da me, gli hanno rubato il furgone e la macchina. La mia vita sta tornando un po’ per volta alla normalità, anche se siamo ancora senza gas e ho molte bollette della luce arretrate. In compenso l’ultima volta alla Caritas sono andato per donare i vestiti dei miei figli di quando erano piccoli. Anche quella volta a testa bassa, per non incrociare lo sguardo di quelli che come me non vogliono essere riconosciuti. Mi sono sentito bene. È stata una grande soddisfazione per me ricambiare chi mi ha aiutato nel momento del bisogno. La mia angoscia più grande in questo momento è mia figlia. Ora ha 17 anni, si è chiusa in se stessa, è una ragazzina molto intelligente, le piace leggere e scrivere, per vederla felice mi basta portarla in libreria, non usciamo mai a mani vuote, i libri se li divora. Quando mi chiede di comprarglieli, io le dico prima che sarebbe opportuno evitare, considerato che alcune volte non abbiamo i soldi per la benzina o la merenda. Ma quasi mai riesco a dirle di no. Da quando le amichette l’hanno isolata, non vuole andare a scuola. Ha vissuto momenti troppo tristi e difficili da comprendere per una bambina, mi ha spiegato un amico, psicologo infantile. L’ho conosciuto perché gli ho ristrutturato la villa, gli ho parlato di mia figlia e mi ha detto che ha bisogno di liberarsi delle ansie e paure che ha accumulato in questi anni. Di dirle tutta la verità per ora me l’ha sconsigliato. Quando arriverà il momento giusto lo affronteremo tutti e tre insieme, mi ha detto. Sono felice di averlo incontrato, non potendo pagare le sedute psicologiche, gli ho fatto dei lavori edili alla villa. Nel frattempo mia moglie ha parlato di mia figlia ad una sua amica che l’ha coinvolta in un’associazione teatrale. La prima volta che l’hanno vista l’hanno mandata sul palcoscenico da sola con un ombrello e un microfono, mi hanno detto che ha improvvisato dei monologhi emozionanti. Il suo sogno è andare a teatro a vedere “Romeo e Giulietta”. Le ho promesso che quando arriveranno i soldi che ci hanno stanziato la porterò a Roma. Insomma a piccoli passi, sempre in salita, ci stiamo rialzando. Ma sono tante le cose che vorrei fare. Vorrei restituire i soldi che la mia famiglia mi ha prestato.
Mia madre e mia sorella si sono indebitate per aiutarmi. Vorrei fare del bene a chi ne ha bisogno, perché so che significa vivere nella sofferenza. E mentre cerco di ricomporre piano piano la mia vita aspetto il giorno di potermi sedere di fronte a mia figlia per spiegarle tutto quello che ci è successo, rispondere alle sue domande. Spero di riuscire a riparare il dolore che ho procurato a lei e a tutte le persone che amo. È la mia unica speranza di vita».

Tratto dal libro “Usura, paura e misericordia”, Edizioni Gelso Rosso di Bari

(Sotto, la prima parte)

Nell’Italia che affonda, usura e gioco d’azzardo fanno affari d’oro

 

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